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Fascismo ed immediato Post Fascismo nel Crotonese.

Nel corso della sua storia, anche il Crotonese subì le prepotenze del Ventennio fascista e, come vedremo, partecipò al clima della Resistenza che vi continuerà anche dopo il 25 aprile con alcune rivolte popolari. Dopo l'Armistizio furono numerosi i Partigiani del Crotonese e di alcuni di questi, in questo lavoro pubblichiamo per la prima volta alcuni cenni biografici. All'inizio del Fascismo, nel 1920, fra settembre e novembre, si svolsero anche nel Crotonese le Elezioni comunali. Nell'allora provincia di Catanzaro, i Socialisti vinsero in 36 Comuni, ma in alcuni di questi, presto, arrivarono intimazioni dei Fascisti che, come ha scritto Francesco Spezzano, tentavano di sciogliere le Amministrazioni democratiche "con lo specioso motivo della salvaguardia dell'ordine pubblico e a costringere tutti o parte degli Amministratori a dimettersi". Fu questo il caso di Casabona, Pallagorio, a San Giovanni in Fiore ma pure di Casignana, Seminara e Brancaleone dove si registrarono problemi collegati alla gestione dell'ordine pubblico. "Il 25 novembre del 1921, i deputati socialisti Mancini e Mastracchi denunciarono al Ministero degli Interni le manovre della Prefettura di Catanzaro tendenti a far dimettere alcuni Amministratori non graditi o allo scioglimento dell'Amministrazione e l'ostruzionismo contro le delibere del Comune di Petilia e deplorarono il fatto che un funzionario precedentemente ed espressamente inviato, approvò una manifestazione inscenata dai Fascisti e non solo non impedì che la manifestazione avesse luogo, ma la scortò fino al Municipio, unitamente al comandante della Stazione dei Carabinieri egli, tutore della legge, che avrebbe dovuto garantire il funzionamento e la libertà del Municipio, consegnando le chiavi del Comune". 
            Giuseppe Marino, maestro elementare in pensione e ricercatore appassionato della storia di Caccuri, ricorda anche nella cittadina dell' Alto Crotonese la nascita di due Partigiani: il tenente colonnello Umberto Iaconis che nel settembre del 1943, combattendo alla testa dei suoi Carabinieri ed un gruppo di Partigiani, liberò Salerno dai Nazisti che si apprestavano a saccheggiare banche e negozi del capoluogo campano ed il "garibaldino" Giovanni Sgro della Settima Divisione Garibaldi "Piemonte" che, invece, combatté i Nazifascisti in Piemonte e in Valle d'Aosta, meritandosi il certificato di patriota firmato dal suo Comandante partigiano e dal generale Alexander, Comandante supremo alleato delle forze del Mediterraneo centrale. Il tenente colonnello Iaconis, in seguito, fu “equiparato, ai sensi del Decreto legge 93 del 6 settembre 1946, ai combattenti volontari della libertà quale comandante di una formazione partigiana dal 9/9/1943 al 26/9/1943 in Salerno". La Città pitagorica fu lungamente baluardo di quella sinistra che, dopo i periodi bui del Fascismo, partecipò alla ricostruzione della democrazia, con la popolazione non più sottomessa agli storici potentati ed alle antiche baronie. In contro tendenza con altri territori della Calabria, nella Città di Crotone il Referendum fra Repubblica e Monarchia fu vinto dalla prima con 6175 voti contro 5323 ed alle prime elezioni libere per il Consiglio comunale del 1946 la Lista unitaria dei Comunisti e Socialisti fu la più votata eleggendo 21 Consiglieri (11 Comunisti e 10 Socialisti) pari ai due terzi della civica Assise. La seconda lista per numero di voti con 4 Consiglieri eletti fu quella dei Repubblicani e Combattenti, mentre la lista democristiana, per la quale invano si impegnò il vescovo mons. Anton Giulio Galati, si fermò al terzo posto. La stessa Dc alle prime Elezioni per il Parlamento, sempre a Crotone, ottenne appena 626 voti. Pci e Psi, almeno sino al 1964, amministrarono insieme la città. Al tempo della Guerra, "i forti aumenti del prezzo dei generi alimentari di prima necessità, indotti soprattutto dal rincaro del 50% delle carni bovine procurarono esasperazione nel ceto operaio crotonese, mentre reduci e disoccupati chiedono invano che i lavori pubblici, prodotti dall'Amministrazione Messinetti, venissero finanziati. La mattina del 30 settembre 1946 gli operai degli stabilimenti crotonesi, alla fine del primo turno, si avviarono in corteo verso il Centro. Lungo il percorso, un numero rilevante di altri manifestanti si aggrega alla manifestazione, tra cui molte donne. Poi il corteo si divide in gruppi i quali si recano nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro dei più grossi proprietari latifondisti. Gli agrari vengono prelevati e portati in corteo al Palazzo comunale, dove vengono costretti ad intervenire ad una riunione con le autorità municipali, a cui in passato si erano rifiutati di partecipare, per discutere le modalità di fornitura di carne ed altre derrate alla Città, nonché la richiesta che i proprietari investano parte dei loro guadagni nella costruzione di case popolari. La riunione dura sei ore, mentre la folla dei manifestanti staziona nella piazza sottostante. Nel frattempo affluiscono rinforzi di Pubblica Sicurezza e davanti il palazzo fanno il loro ingresso in assetto di guerra. Ci sono i primi feriti da colpi di arma da fuoco, poi la Città vive per alcuni giorni in stato di assedio. Vengono arrestati dirigenti sindacali di sinistra e tra di essi tre donne".  
           Nel Crotonese, a guerra finita, ebbe valore fondante per la democrazia la rivolta di Melissa culminata nell'eccidio del 29 ottobre 1949. Dopo l'occupazione del latifondo di Fragalà i Celerini mandati dal ministro Mario Scelba sparano sui manifestanti lasciando a terra vari feriti e 3 morti. "Era il tempo della semina delle fave e ci siamo incamminati verso le 5. Dell’arrivo della polizia nessuno sapeva niente. La raccomandazione che avevamo avuto dai dirigenti della Federterra era di accogliere i poliziotti, se fossero arrivati, con battimani e grida d’evviva. E così fu. Alla vista dei primi agenti ci radunammo al centro di Fragalà e battemmo le mani. Come risposta giunsero i primi candelotti lacrimogeni. Qualcuno di noi li rilanciò verso lo schieramento dei celerini, a quel punto scoppiò la tragedia. I poliziotti cominciarono a sparare con le pistole ed i mitra. Un vero e proprio inferno di piombo e di fuoco”. A raccogliere la testimonianza di Peppino Nigro, testimone oculare e fratello di una delle vittime dell’Eccidio di Melissa, il ventiquattrenne Francesco Nigro, a distanza di 30 anni dalla tragedia, Sergio Dragone, cronista de “Il Giornale della Calabria". I fatti di Melissa ebbero tale clamore da spingere il Governo a realizzare quella Riforma che mise finalmente fine al Latifondismo. "Le condizioni dei contadini - scriveva Pietro Ingrao, nelle proprie memorie - era davvero triste, la rimunerazione della forza lavoro miserabile. I contadini avevano prima di tutto fame di terra. Chiedevano terreni da lavorare, da mettere a frutto. Guardavano avidi le terre del demanio comunale, rapinati in modo fraudolento da baroni esosi e prepotenti che se n'erano impossessati, lasciandoli rovinosamente incolti: icone di una rapina padronale arretrata, incapace da secoli di avviare anche un minimo brandello di modernizzazione sociale e produttiva. Lungo quel tratto della Calabria che saldava la provincia di Catanzaro a quella di Cosenza e culminava nelle vette immacolate della Sila, già alla fine della Guerra, stimolata e sostenuta dai partiti di sinistra, s'era mossa l'iniziativa del bracciantato più povero: seminavano quelle terre demaniali per cavarne un po' di cibo con cui alleviare la fame millenaria diventata più aspra e assillante per le privazioni recate dalla guerra. Alla fine degli anni Quaranta ripartì quel movimento, che a tratti sembrava avere caratteri di favola: intere famiglie muovevano a piedi dai villaggi o dalle magre città e giunti in carovana sul feudo iniziavano la messa a coltura. Potavano, aravano e seminavano zolle inselvatichite, segnavano orgogliosamente i confini di quella presa di possesso con il vessillo nazionale e la bandiera rosse. Quasi sempre a quel rito partecipava l'intera famiglia: le donne con gli uomini ad arare e seminare, e i figli a raccogliere, guardare e segnalare".
               Saverio Castagnino di Petilia Policastro, al tempo della rivolta di Melissa, aveva 22 anni conservando, quindi, un buon ricordo di quel periodo storico. Ci affidiamo ai suoi ricordi. A Petilia Policastro, come si è arrivati all'occupazione delle terre? "Si frequentava - ricordava - la sezione del Partito Comunista tutte le sere. Tutta Petilia, tutta indistintamente, diciamo l'80% del paese; addirittura la sezione non aveva la capienza. Si stava fuori in mezzo alla strada ad ascoltare i dirigenti del partito, il segretario, qualche altro esponente che veniva da fuori. Una sera il segretario, la sezione era proprio piena, ci disse di andare ad occupare le terre, naturalmente le terre incolte". L'indomani, 70, 80 persone occuparono una terra in località "Cancelli" fra i Comuni di Petilia Policastro e Roccabernarda e si registrano alcune arresti. "Eravamo andati lì per occupare un pezzettino di terra - continua il racconto di Castagnino - noi non è che ce la mettevamo in tasca e ce la portavamo a casa, ma restava lì. Se veniva divisa a tutti questi contadini che eravamo andati lì, si pagava al proprietario, si coltivava: era giusto. Invece ci hanno arrestato. Il brutto però è che i familiari di ognuno di noi per dodici, tredici giorni, mi pare, non sapevano che ci avevano portato al carcere di Catanzaro per venirci a trovare. Tutte le mattine arrivavano i custodi, aprivano con una certa strafottenza e ci mettevano il pagliericcio sottosopra, cercavano dentro, roba da pazzi. Possibile che questi non erano informati che eravamo arrestati per andare ad occupare le terre? Agivano in un modo brutto. Ci guardavano in un modo brutto". Dopo la caduta del Fascismo, pure l'Arcidiocesi di Crotone e Santa Severina registrò la presenza di un "Prete operaio". Il settentrionale don Claudio Vitale che operò per qualche anno a Zinga, frazione di Casabona. "La scelta di fare il bracciante agricolo – scrive don Pietro Pontieri – aiutando chi aveva bisogno nei lavori dei campi, in mezzo ad un paese di piccoli coltivatori diretti, non solo non fu condivisa dai benpensanti, ma il suo gesto apparve provocatorio”. Prima del trasferimento nel Nord italiano, continua il racconto di don Pietro Pontieri, giornalista e storico crotonese, un motivo di imbarazzo nel clero calabrese fu suscitato dallo stesso don Vitale nella città di san Francesco, il celeste patrono della Calabria. “Durante il primo Convegno ecclesiale regionale a Paola, tra i delegati nella città di San Francesco da Paola era anche don Claudio, ma ad un certo punto lasciò il convegno e salì sul primo treno per partecipare alla marcia dei duecentomila disoccupati a Roma”. 
Francesco Rizza 

Da "FASCISMO, ANTIFASCISMO E PARTIGIANATO CALABRESE MEMORIE ED OPINIONI" edizioni Publigrafic (novembre 2024)

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